25 ottobre 2010

E se domani

N. ha la mia età. Si è trasferita nella mia città per studiare, si è laureata in biologia ed è rimasta.
Quando due anni fa le proposero un contratto come tecnico di laboratorio nell'ospedale dove lavoro, preferì lasciare l'università, con cui collaborava da qualche anno, per cominciare a "esplorare il mondo reale".
Fino ad allora poco stipendio, niente orari (nel senso che spesso si tratteneva oltre il dovuto) e le uniche (rare) soddisfazioni consistevano in qualche articolo pubblicato dal suo gruppo, sempre sotto l'egida tirannica del prof. di turno "primo nome" che poteva anche far giacere un suo (di N.) brillante articolo sulla sua scrivania per 6 mesi, senza un motivo preciso che non fosse la sua presunzione. Risultato: un altro gruppo pubblicava per primo la ricerca e il lavoro di un anno andava sprecato così senza un motivo.
Forse per questo N. ha accettato senza rimpianti un incarico libero professionale in cambio delle sue sudate borse di studio. Come ogni ricercatore/persona dotata di serietà e passione per quello che fa, N. in questi due anni si è dedicata alla medicina di laboratorio entusiasmandosi per ogni nuovo sapere, per ogni nuova tecnica. Ma non si è limitata ad approfondire un settore di cui non aveva esperienza e che non c'entrava molto con il suo background. Lei è stata anche, fin da subito, un'interlocutrice attenta alle richieste dei reparti, una voce gentile al di là del filo quando magari il medico di turno chiamava per il risultato di un prelievo urgente, una persona corretta nei tempi e nei modi. Che dire di più? Ora il suo contratto è in scadenza, l'azienda non ha molti soldi, come consueto di questi tempi, e lei a inizio novembre ci saluterà.
Quando le ho chiesto quali fossero per lei le possibili alternative, mi ha detto che praticamente, per lo meno in Italia, pensare di essere assunta, anche come precaria, in una altro laboratorio è quanto meno impossibile se non hai la raccomandazione giusta (e ovviamente non intendo una raccomandazione di merito).
Tornare all'università (orribile a dirsi) le sembrerebbe come rientrare nella gabbia dopo aver assaporato il cielo.
Le resta qualche collaborazione con le case farmaceutiche, anche se, nel suo ramo specifico, anche lì il lavoro è tanto, lo stipendio poco e le soddisfazioni quasi zero. Ha mandato un curriculum anche all'ospedale del piccolo paese da cui proviene, sperando che non le risponda nessuno perchè ha paura di tornare.
Nel frattempo quasi sicuramente dovrà lasciare la specializzazione che aveva intrapreso, sia per motivi di tempo che economici.
N. ha 35 anni,momentaneamente è sola e deve ricominciare quasi da zero, perchè nessuno è in grado di offrire a una professionista laureata, seria e attenta una chance in questo paese. Inutile dire che all'estero, con tutti i difetti, sul piano della ricerca sono tutt'altre parole: merito, responsabilità, opportunità, premio. Ma questa è un'altra storia.
E si ritorna al fatto che sono i fondamenti che non vanno. Perchè se in un paese persone come N. si ritrovano a 35 anni a dover ripartire da capo, solo per aver peccato.. di che? di buona fede forse ? di zelo, di passione ? allora qualcosa di sostanziale non va. E non mi dite che quello che non va è il contratto a tempo, perchè è sempre questione dell'intelligenza di chi te lo fa il contratto: se vali, prosegui, perchè investo su di te e sulle tue idee, se no ciao. All'estero i ricercatori hanno quasi tutti un contratto a tempo determinato.
Diverso è quando il contratto a tempo diventa il coltello che al momento giusto, cioè quando all'azienda fa comodo, recide il rapporto di lavoro senza considerare le qualità di chi lavora (e quindi commettendo tra l'altro un incredibile auto-gol).
Ma nel frattempo, tutto questo succede e succederà ed è già successo. E allora non mi resta che tormentarmi con le parole che accompagnano la chiusa di un editoriale della scorsa settimana: quando tra 20 o 30 anni  i nostri  figli ci chiederanno "ma voi cosa avete fatto per impedire tutto questo", noi cosa risponderemo ?

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