10 aprile 2013

ciao

Tra amici è consuetudine salutarsi alla fine di un incontro. Io ho rimandato  fino ad ora.
Questo spazio l'ho riempito in giorni che ora sembrano passati remoti, a volte l'ho trattato con incuria, a volte ho preteso che vivesse semplicemente di vita propria, quando invece spesso richiederebbe continua condivisione, qualità che non è mai stata il mio forte, per lo meno non in questa forma. 
Nondimeno mi sono emozionata per ogni commento, per ogni feed back, noto e ignoto, come se dubitassi fino in fondo che queste parole scritte e lanciate chissà dove potessero avere interlocutori. 
Poi vivere ha preso il sopravvento  sullo scrivere in questo contenitore.
Forse per trattenere meglio i giorni e gli eventi, li ho tenuti dentro di me, come una necessità.
Ora ho due motivi in più per chiudere questo spazio e pensare forse a nuovi spazi, forse a nulla che assomigli loro. 
Questi due motivi hanno piccoli riccioli neri e sorridono, quasi sempre.
Quindi ciao e grazie del tempo che chi è passato di qui ha dedicato a queste righe. 

31 marzo 2012

Il valore delle differenze

Siamo immersi nella diversità, questo è un fatto. Da quando ci alziamo al mattino e ci guardiamo allo specchio a quando diciamo buongiorno al vicino di casa in una lingua che magari neanche sappiamo.
E se ancora resistono le ghettizzazioni o le nicchie, la strada della diversità è uscita allo scoperto e non conosce inversioni.
Diversità da un lato sostenuta, promossa, inneggiata dai media, a livello "globale" (io ci sono io mi distinguo), dall'altro stupidamente nascosta, umiliata, trattenuta, a livello "locale" (dubitare del diverso).
Ho letto su questo blog la reazione di un bambino alla domanda di un giovane africano, presidente di una associazione contro il razzismo, che gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto se lo avesse incontrato da solo per strada. Risposta del bambino: sarei scappato. E se invece di me incontravi Seedorf? Gli chiedevo l'autografo. E perchè? Perchè lui lo conosco.
Questo mi ha ricordato incredibilmente un brano dei libro Orzowei (ricordate il cartone?)

"Forse è un Swazi, o un bianco, o uno del piccolo popolo. È tutti e tre, o forse nessuno dei tre. Eppure io ho visto: boscimani, negri, bianchi sono stati capaci di amarlo e di sacrificarsi per lui quando lo hanno conosciuto. Ed egli ha amato tutti. Ecco: quando ci conosciamo, anche se la nostra pelle è di un altro colore, ci amiamo."

Per questi e altri motivi, mi ha entusiasmato e consiglio la mostra che si sta svolgendo al Palazzo delle Esposizioni,  Roma, fino al 9 aprile. Parla di noi, di tutti. Di come la nostra irripetibile e preziosa diversità origini da un'altrettanto stupefacente unicità. Il nostro DNA, quello di tutti gli abitanti di questo pianeta, si formò attraverso prove ed errori in Africa, nell'odierna Etiopia, di cui tutti siamo "figli", e sempre attraverso prove ed errori, attraverso causalità e casualità, è arrivato a diventare l'unica specie esistente al mondo: l'homo sapiens.
E' una mostra/viaggio che apre la mente, con supporti figurativi e su solide basi scientifiche, a considerare tutti gli esseri umani come facenti parte di unico passato e di un unico futuro.
Non si tratta di un percorso solo per addetti ai lavori, anzi ci sono laboratori e percorsi didattici per famiglie e scuole ed è un'occasione per spiegare in modo concreto ai bambini (i futuri uomini di domani) a non aver paura della diversità, a considerarla una risorsa, un'occasione, uno stimolo culturale che non vanifica la matrice comune che ci caratterizza tutti quanti.
Nessuno escluso.


15 dicembre 2011

Il razzismo spiegato a mio/a figlio/a

E' andata che mentre ero al lavoro mi chiama mia madre: dove sei mi chiede. Al lavoro. Hai sentito della sparatoria al mercato? No dico io quale sparatoria? A casa,  la sera, capisco, capiamo. O meglio non capiamo. La prima domanda è perchè ovviamente, ma la seconda è prechè qui, perchè ora.
E' vero che la follia è un fiume in piena, imprevedibile il decorso, ma la follia non basta mai a se stessa, va nutrita, alimentata. E forse è vero che ultimamente diamo per scontate un sacco di cose, tutti, ognuno di noi.
Che passiamo indifferenti davanti a manifesti inneggianti e deliranti di un certto tipo (che guarda caso in questo periodo sono attaccati un pò ovunque), ci rifugiamo nel cinismo del tanto non cambierà niente o peggio chiudiamo gli occhi e neghiamo che esistano problemi non correlati con il nostro piccolo orto.
Perchè proprio qui, perchè ora.
La terza domanda  è che avremmo fatto se uno dei due o tutti e due fossero nostro figlio.
Nostro figlio che ancora non c'è, ma che fino ad oggi credevamo di poter crescere in una città non priva di difetti, ma comunque abituata alla multietnicità, in cui mai avevamo mai neanche una volta respirato l'intolleranza razziale. Ma ci sbagliavamo. Non perchè Firenze, come è stato subito scritto da alcuni giornali, sia una città razzista, ma perchè l'intolleranza è intolleranza verso qualsiasi  cosa si rivolga e in qualunque città e verso qualunque essere umano.
E allora forse dobbiamo smetterla di  accontentarci delle certezze surrogate, tipo non-ho-mai visto-episodi razzisti-nella-mia-città, perchè in fondo non è così, non questo momento e non in questo paese. 
Perchè "Il razzismo esiste ovunque vivano gli uomini. Il razzismo è nell'uomo. Si è sempre lo straniero di qualcuno. Imparare a vivere insieme, è questo il modo di lottare contro il razzismo." Possiamo dire che questi siano tempi  in cui le persone apprezzano ciò che è straniero? Pensiamoci un attimo:  la ricetta della torta di mele della vicina (io la fo meglio), l'educazione dei figli (io col mio non lo farei mai),un modo inedito di approcciare un problema (alla larga la pericolosa novità sovversiva), la religione (no comment)  e ..ebbene sì ancora le donne (sempre no comment), dire la verità (ma scherzi?)..un ungo elenco.
Pensiamo a quanto razzismo c'è tra noi, cromaticamente e geograficamente conformi e il colore della pelle o la provenienza diventeranno la coda di un lungo elenco.
Ognuno di noi è straniero a qualcosa, bisognerebbe ricordarselo come un mantra ogni mattina al risveglio.
E capire che questo, lungi dall'essere un limite, è la nostra opprtunità per uscire dal nostro piccolo smisurato me. Glielo dobbiamo, non solo a Diop Mor e Samb Modou e anche a Sogou Mor e Mbenghe Cheike, ma a tutti quelli, che indipendentemente dal colore della pelle, o dall'etnia o religione o altro a cui appartengano, si sentano osteggiati o discrimninati tollerati o ignorati  senza una valida ragione.
Stanotte ho sognato che una giovane paziente appena operata al cuore entrando in reparto tirava fuori dalla valigia una bandiera del senegal fatta a maglia e la appendenva nella sua stanza tra l'applauso degli altri pazienti. Senza dubbio è forte il mio bisogno di vivere in un paese civile e senza dubbio gli eventi privati che stiamo vivendo in questo periodo si sono legati inevitabilmente a questi eventi pubblici.
Si può dire che ci siamo trovati a discutere di qualcosa che accadeva non così lontano, ma proprio dietro casa nostra.
Ma proprio per questo ho percepito, anche oggi, più che mai, che davvero, come ha detto una volta qualcuno, il futuro è l'unico posto dove possiamo andare, per cui le retromarceo le frenate o le deviazioni, per quanto terribili, non fermeranno i giorni che passano, i colori che si mescolano, i mille modi di fare una singola cosa. Ma ben prima di questo dobbiamo reimparare l'abc del rispetto, della com-passione a partire  dal nostro dietro l'angolo. Per noi, ma anche per i figli, di qualsiasi colore siano, per cui il nostro dietro l'angolo sarà il mondo. Perchè non ci sia più da pensare a cosa dire ai genitori di un Mor o un Modou quando legittimamente chiederanno come e perchè sono morti loro figli in una qualsiasi mattina di dicembre, mentre lavoravano, al mercato di piazza Dalmazia.

27 dicembre 2010

Magic moments

 Montare insieme la biblioteca nuova e metterci dentro i nostri libri

Guardare un qualsiasi cartone animato di Miyazaki accoccolati su una poltrona e avvolti da una coperta morbida

Ospitare amici in un giorno di neve: improvvisarsi senza macchina, senza telefono, senza tempo. Improvvisare una cena e un divano letto.

Avere tempo e pazienza anche per la burocrazia

Una tisana, un thè, un bicchiere d'acqua a casa, con lentezza, in un pomeriggio senza lavoro

Ricevere per posta un attestato importante il giorno della Vigilia

Cucinare per la prima volta in vita mia un pranzo di Natale tradizionale (che in Toscana significa crostini neri, tortellini in brodo di cappone e bollito misto con salse e contorni)

Leggere (in questo momento Lezioni Americane di Calvino)

Dimenticarsi chi siamo. Ricordarsi chi siamo.

Le luci dell'albero di Natale, che come al solito rimarrà intatto fino al compleanno di K. A marzo.

23 dicembre 2010

Malasanità

Purtroppo ne devo parlare e so che non sono giorni adatti, ma tant'è. Mi dà fastidio affrontare argomenti inflazionati e tra l'altro questo post ha già quasi espresso tutti i nodi importanti del problema. Ho detto quasi. Dentro il quasi ci stanno alcuni eventi degli ultimi quindici giorni di cui rendo partecipi i due lettori di questo blog.

1. una collega di guardia su tre piani ospedalieri in un giorno festivo viene chiamata perchè una paziente ha perso conoscenza. Ha appena tempo di recarsi al piano e iniziare la rianimazione che arrivano .. i carabinieri, chiamati dai parenti che si trovavano per caso ancora in ospedale all'ora delle visite. Cioè questo non accade DOPO, quando i parenti, superato lo shock per la perdita improvvisa e inaspettata di un loro familiare, attivano una procedura legale perchè ritengono che sia stato commesso qualche errore nella gestione della paziente. No. Questo accade mentre la mia collega la sta rianimando, mentre sta svolgendo il proprio lavoro. La paziente purtroppo muore dopo più di un'ora di rianimazione. E' un evento inaspettato, per cui è lo stesso primario insieme alla collega - e non la famiglia- a richiedere l'autopsia. La quale autopsia dimostra che la paziente è deceduta per cause non prevedibili e non dipendenti dalla gestione clinica.

2. un collega visita una paziente obesa, ipertesa, diabetica, quindi ad elevato rischio di eventi cardiovascolari maggiori (infarto, ictus). La signora lamenta affanno per sforzi precedentemente ben tollerati. Il collega le fa l'elettrocardiogramma e l'ecografia del cuore che risultano normali a riposo e poi le propone un test da sforzo, la scintigrafia miocardica, per evidenziare sotto sforzo ciò che a riposo non è evidente, cioè segni di soffrenza coronarica. La signora si reca all'ospedale e le prenotano non la scintigrafia, ma un altro tipo di test da sforzo, altrettanto valido. Il test da sforzo per sua stessa definizione serve a sottoporre la paziente ad un carico di lavoro tale da mettere in evidenza una eventuale ischemia cardiaca così da porre la diagnosi e attuare poi la terapia appropiata. E' un esame non privo di rischi tanto che 2 pazienti su 10000 possono sviluppare complicanze fatali a seguito del test, tuttavia lo si prescrive quando, come in questo caso, il rischio di farlo risulta inferiore al rischio di tenersi la patologia senza saperlo ed essere esposti alle conseguenze (anche in questo caso potenzialmente fatali). La paziente dà il consenso all'esame, ma sfortunatamente lo sforzo le stimola un'aritmia (segno che effettivamente c'era sotto una malattia coronarica) e infine un arresto cardiaco.
I parenti, in sala d'attesa, saputo l'accaduto aggrediscono fisicamente la dottoressa che ha fatto l'esame, tanto che lei chiama i carabinieri e a questo punto scatta in automatico l'indagine. Il mio collega è nel registro degli indagati insieme ai medici che hanno effettuato l'esame. Il suo operato è stato limpido e corretto, tanto che sono sicura tutto verrà risolto senza alcun danno per lui. Senza alcun danno ? Intanto, per le sole formalità, ha già dovuto spendere migliaia di euro in ..spese di giurisprudenza, diciamo, e lui stesso sa che, con gli attuali tempi processuali, la cosa non verrà archiviata prima  alcuni mesi, forse un anno e più. E intanto uno che si vede arrivare a casa una convocazione dei carabinieri per aver svolto con coscienza il proprio lavoro come si deve sentire a continuare a lavorare ? E cosa deve pensare sapendo che quella stessa paziente si trascinava addosso quegli stessi sintomi da mesi e nessuno dei colleghi prima di lui li aveva presi in considerazione e forse se lo avessero fatto la patologia della paziente sarebbe stata, forse, ancora gestibile ? Perchè ora non sono quei colleghi ad avere l'angoscia anzichè lui ?

Lo so bene quando un medico parla di malasanità si pensa sempre che sia di parte. Ecco, diciamolo subito, io sono profondamente di parte. Dalla parte dei medici che operano con scienza e coscienza, due paroline abusate, ma tanto necessarie. Se vengono effettuati errori medici oggettivi, dimostrati, allora è giusto che vengano valutati e giudicati nelle sedi opportune. Ma i medici scrupolosi, seri, che ancora studiano (perchè è solo così che si può sperare di fare questo mestiere), quelli no porca miseria.  Quelli dovrebbero essere difesi a spada tratta dai pazienti, dai giornali (!), dai colleghi, dai giudici.
In medicina mi è stato insegnato che ogni fenomeno ha più facce, va visto e valutato in modo poli-parametrico. Infatti molte sono le facce della cosiddetta malasanità: i giornalisti strilloni che, senza una minima cognizione medica (perchè per parlare di medicina, se non si è un medico, così come di architettura se non si è architetto, bisogna avere un minimo di cultura scientifica) si permettono di instillare dubbi nelle persone/pazienti su argomenti importanti in nome delle copie in più da vendere.
Alcuni avvocati, ben presenti in vari siti internet, alla radio e persino nelle pubblicità via mail oltre che all'ingresso di vari pronti soccorsi, che promettono risarcimenti milionari a costo zero (della serie se perdiamo la causa non mi pagate la parcella) fomentando nelle persone più avide la voglia di intraprendere cause a prescindere dal trattamento sanitario offerto, della serie "ci proviamo tanto l'ospedale si cala sempre le brache e paga". Perchè questi avvocati fanno tanta pubblicità alla malasanità? La prima risposta che mi verrebbe in mente è business, la seconda.. non c'è una seconda.
Le strutture ospedaliere che effettivamente, prima di far trascinare una causa, preferiscono risarcire anche senza che sia stato commesso alcun errore medico, cosa che a mio parere fa apparire in mala fede l'ospedale agli occhi della gente.
So benissimo che i medici come tutte le categorie e sempre generalizzando non sono tutti perfetti: ne esistono di maleducati, menefreghisti, egoisti, solipsisti, avidi, ignoranti. Ma ne esistono tanti anche di onesti, generosi, responsabili, brillanti, empatici, sapienti.
E allora per esempio perchè il mio collega, che sa di essere coinvolto ingistamente in una causa legale, non può, in caso gli venga riconosciuta la ragione, rivalersi in automatico per danni morali sul mandante della causa stessa, come accade negli Stati Uniti e in Gran Bretagna? Forse questo diminuirebbe il numero delle cause intentate senza presupposti medico-legali coerenti e sfronderebbe un pò il terreno..E forse farebbe capire a chi è vittima di un dolore che prima viene il dolore e poi, a mente fredda, dopo, viene la lucidità che conduce a sentire periti legali, firmare carte, attivare processi e infine compiere un atto importante come una denuncia. Attivare la macchina complessa della giustizia senza validi motivi ( e le statistiche ci dicono che è così nella maggioranza dei casi di denciata malasanità) è un atto grave e non giustificato dal dolore, anzi, che secondo me con il dolore non c'entra nulla.
Oltre tutto i medici sono tanti milioni di milioni. Se ritenete che uno non sia all'altezza, cambiate subito, non fra cinque minuti,  perchè i primi responsabili di noi stessi siamo noi.
E inoltre tutto questo polverone non farà che peggiorare una delle cose più importanti in sanità, cioè il rapporto medico paziente, con tanto danno dei medici, ma sicuramente con ancora più danno dei pazienti. 
Vogliamo davvero questo ?

15 dicembre 2010

Quando qualcosa non ti piace cambia discorso

Continuo a pensare a questa frase e a quello che è successo a Roma un 14 dicembre qualunque, martedì.
E allora cerco di cambiare discorso. Mi passano davanti scene del quotidiano in fotogrammi ad libitum.
Il non buongiorno del benzinaio, del casellante, dell'ortolano, dell'assicuratore, del funzionario pubblico, del parlamentare.
La rabbia e la frustrazione anche poco sopita che sta dietro alla risposta qualunque a una qualunque domanda per esempio "chi doveva occuparsi oggi di questo?" oppure "cerco via Taldetali, mi potrebbe indicare la strada?" o "dove lavori?" o " da quanto tempo aspetti?" o "quante possibilità ci sono che...?".
 L'ignoranza. Grande, grassa, addirittura bestiale, straripante, smargiassa, ostinata, volgare, presuntuosa, onnipresente.
La denigrazione personale, che ormai è diventata l'unico modo di argomentare della maggioranza (non solo di governo) e, immensa tristezza, anche uno dei modi più efficaci per attirare pubblicità e attenzione.
Il tempo che non verrà per tanti e tanti: quello del lavoro stabile, dell'alternativa, della prospettiva ( nb: l'Italia nella classifica che valuta la possibilità di investimento sul proprio futuro si colloca dopo la Zambia).
L'ignoranza. Dei finti evoluti, finti moderni, finti democratici, finti progressisti, finti intellettuali, finti morali.
Il peso oppressivo del vecchio borghese (passatemi il termine) ancora in auge, che mentre tutto crolla, scuola dei suoi figli (o nipoti) compresa, alimenta la sua cellulite mentale ingrassando a forza di favori, raccomandazioni, rimpasti, accordi, in nome del dio denaro, l'unico valore a cui sia mai stato fedele in vita sua e intanto pensa al prossimo suv che si comprerà grazie ai soldi della sua ricca pensione e al posto quanto mai sicuro e inviolato che ha già assicurato alla sua discendenza di ignoranti.
L'antichità, intesa nel senso più deteriore che si possa pensare, come incapacità di un paese, ma che dico paese, di alcuni esseri umani di pensare nei soli termini possibili per il solo possibile futuro: rendere alla scuola e in senso lato alla cultura il ruolo  di strumento principe per fare della propria e altrui vita qualcosa degno di senso, uomo in mezzo agli uomini.
L'ignoranza. Peggio di un cancro, di una malattia degenerativa, peggio di una metastasi, di un virus Killer che entra nel sistema e ne sconvolge le regole imponendo la propria anarchia distruttiva.
Da più canali arriva il solito teatrino: qualcuno parla dicendo cose generiche e chi gli sta davanti, se inquadrato naturalmente, dissente con la testa, applausi da un parte o dall'altra a seconda della battuta d'effetto e noi lì a guardare, più che muti, attoniti, in un qualunque martedì sera, con la faccia sprrfondata nelle occhiaie dalla stanchezza, con qualche pensiero giusto in più del dovuto in testa e molte cose da aggiustare dentro e fuori.

E in tutto ciò,  la cosa che mi rende più triste nel cambiare discorso non è che cambiare discorso in realtà non cambia argomento, perchè ormai questa cosa che non so definire (decadenza? come ci etichetteranno domani quelli che verranno dopo?) ci intride tutti e ancora non abbiamo capito dove ci abbiano nascosto l'uscita.
No. La cosa che stasera mi rende più triste è egoistica e personale da un lato, cosmica e universale dall'altro.
E' che sia pure per una frazione minima di secondo, oggi, sono stata contenta di non avere ancora avuto figli.

3 dicembre 2010

Al supermercato

Oggi pomeriggio, uscendo dal supermercato (luogo per me catartico, soprattutto nei momenti difficili), sono passata davanti al fotogramma di una donna chinata nell'atto di allentare il colletto della tutina imbottita del suo bambino, causa il passaggio dal freddo dell'esterno al caldo dell'interno.
Questa scena qualunque mi è apparsa insolita per la sua lentezza e solennità: la donna non più tanto giovane, coda di capelli scuri, occhi stanchi, viso pallido, ma mi sembrava trepidasse di gioia. Come se stesse compiendo qualche rito sacro, ha semplicemente allentato una cerniera. Dentro la tutina e al centro del suo mondo c'era questo bambino, occhi a mandorla, capelli scuri, sguardo acuto.
Ho pensato che avesse sognato talmente tante volte questo gesto, da comprenderne realmente il significato, da goderselo, da centellinarselo, gesto che sfuggiva ai più, a noi che uscivamo distratti dal supermercato.
 Purtroppo non ce la faccio a non sperare ancora che i sogni, soprattutto quando vengono continuamente disattesi, quando non si concretizzano subito, si realizzino, domani, ancora più profondamente.
Ma forse questo è solo lo specchio della mia testardaggine.